Parlare della scrittura di DeLillo non è impresa facile, ancor meno parlare di Underworld. L'impegno di DeLillo nel voler denunciare la falsità del "sogno americano", e questo sin dagli anni settanta, è il tema centrale di molti suoi scritti. Con Underworld l'intenzione di smantellare molti miti americani è evidente sin dall'esordio. La voglia di costruirsi un passato, di avere delle "rovine", citando Marc Augé, di cui parlare, da mostrare e visitare è la scintilla che scatenerà l'incendio narrativo che travolgerà ogni individuo coinvolto nella storia. Perché qui non abbiamo protagonisti e comparse. Ogni personaggio sarà protagonista della sua storia.
Tutto inizia con una palla da baseball di una storica partita (storica per chi una storia da narrare non ce l'ha, evidentemente) che, passata di mano in mano, farà da trait d'union nelle molteplici vicende. Dalla ghettizzazione, dei neri, degli italiani e di tutto quell'eterogeneo fiume di immigrati degli anni cinquanta, all'affascinante vita degli artisti emergenti, ricchi, infelici, vacui e annoiati. Passando per il disagio di chi, cresciuto nel "sottobosco" sociale, si ritrova ad avere una vita, una posizione, un lavoro che forse non è quello che cercava. E poi i rifiuti, urbani, tossici, o più simbolicamente umani, che l'America non riesce a gestire e smaltire. Si direbbe che sarebbero questi ultimi, questo "mondo sotterraneo", taciuto e ignorato, ad essere il perno centrale delle vite e delle scelte di coloro che dalla narrazione sono coinvolti.
In questa opera importante, lo stile di DeLillo non è dei più semplici. Denso, profondo, linguisticamente elegante, Underworld non può essere definita una lettura propriamente scorrevole. Richiede del tempo per essere metabolizzata, per poter cogliere la finalità del racconto a cui sono giunto solo a lettura completata. Una di quelle letture che spesso definisco necessarie, per la formazione personale e critica, e che aiuta ad affinare la nostra capacità di osservazione del mondo.